Rionero in Vulture: il borgo del brigantaggio

Rionero in Vulture (Arennìure in dialetto rionerese) è un comune della provincia di Potenza.

Situato alle pendici del Monte Vulture, è stato insignito della medaglia d’argento al merito civile per atti di abnegazione durante il secondo conflitto mondiale.

La città è nota anche per la sua ricchezza di acque minerali, settore in cui opera l’azienda Fonti del Vulture, che imbottiglia, tra le altre, le acque Lilia e Sveva.

Rionero in Vulture è anche sede del CROB, un centro sulla ricerca oncologica d’importanza nazionale.

Territorio

Il paese si trova su due colline a sud-est del Monte Vulture (a 676 metri sul livello del mare) al confine con Campania e Puglia. I suoi abitanti sono divisi tra il centro abitato e le frazioni di Monticchio Bagni e Monticchio Sgarroni, ove si trovano due laghi di origine vulcanica.

Storia

Antichità

Il territorio era abitato già nel IV secolo a.C., come testimoniato dalle tombe rinvenute nelle località “San Francesco”, “Cappella del Priore” e “Padulo”.

Sulla fiumara di Ripacandida, nei pressi dell’attuale abitato, si rinvengono tracce di un acquedotto di epoca roman. Nel III secolo a.C. entrò a far parte dell’agro di Venusia (l’attuale Venosa).

In corrispondenza della “Torre degli Embrici”, nel 2004 degli scavi archeologici hanno riportato alla luce un insediamento agricolo-termale, risalente agli ultimi secoli avanti Cristo e proseguito fino al tardo Medioevo.

Una bolla di papa Eugenio III datata 1152 diede vita a “Santa Maria di Rivonigro”, casale del feudo di Atella, a sua volta appartenente al vescovo di Rapolla.

Medioevo

La caduta dell’impero romano ha visto un susseguirsi di invasioni barbariche fino alla calata normanna. La popolazione si stabilì principalmente presso la frazione di Monticchio, assurgendo il castello locale – probabilmente antecedente al loro arrivo – a roccaforte.

La zona divenne in seguito luogo di rifugio per i monaci basiliani, scampati alle persecuzioni iconoclastiche nei Balcani. Pertanto l’ordine religioso si stanziò a a propria volta a Monticchio, ove eresse anche un’abbazia.

In epoca sveva, la zona di Rionero fu residenza di caccia di Federico II il quale prediligeva i boschi del monte Vulture per esercitare la sua grande passione, lasciando di tanto in tento la sua adorata Melfi ove trascorreva gran parte del tempo libero.

La fine del governo svevo fu seguita da un vertiginoso aumento delle tasse per il casale, che compromise già le condizioni abbastanza misere dei suoi abitanti.

Nel 1316, in seguito a un bando di Giovanni d’Angiò che accordava esenzioni e immunità per popolare l’allora neonata Atella, Rionero fu quasi del tutto abbandonata per circa un secolo.

Età moderna

Un devastante e fortuito terremoto che rase al suolo Atella fu la “fortuna” di Rionero. Nel 1456 subì una intensificazione nella ripopolazione degli abitanti di quella, che ripararono nel casale di Rionero.

Nello stesso periodo vi si stabilì anche una comunità contadina di origine albanese, proveniente da Melfi. Questa crebbe nei pressi della “Chiesa dei Morti”, ove poté professare il proprio culto di rito greco fino al 1627, quando il vescovo Diodato Scaglia la condusse a quello latino.

Durante la dominazione spagnola, la città ebbe un periodo di pace e di prosperità. In data 1º aprile 1502, Rionero ospitò nella chiesa di Sant’Antonio Louis d’Armagnac, duca di Nemours e Consalvo Fernandez di Cordova, rispettivamente comandanti degli eserciti francese e spagnolo, i quali si incontrarono per stipulare accordi sulla spartizione del Regno di Napoli.

Gravemente colpita dal terremoto del 1694, la sua popolazione in quel periodo non superava settecento persone. In seguito la nobile famiglia Caracciolo, ai quali spettava il feudo, concessero il disboscamento, il dissodamento e la coltivazione dei terreni occupati dai boschi della località “Gaudo”.

Grazie alla sua posizione di frontiera tra Campania e Puglia, Rionero ebbe un certo incremento economico e demografico: nel 1735 gli abitanti erano giunti a circa 3000, nel 1752 a circa 9000. A fine 1700 Rionero era il secondo paese per popolazione della intera Basilicata con i suoi 11000 abitanti; al primo posto vi era Matera con 12300 unità.

Durante la Repubblica napoletana del 1799, Rionero partecipò attivamente ai moti e vi fu piantato l’Albero della libertà. Tutto ciò avvenne soltanto perché, ormai, tutti i paesi immediatamente limitrofi si erano già democratizzati e i commerci erano divenuti praticamente impossibili.

I rioneresi Michele Granata e Giustino Fortunato senior furono importanti esponenti della repubblica partenopea ma, dopo la sua caduta, Granata fu condannato a morte nel dicembre dello stesso anno mentre Fortunato si salvò con la fuga. Quest’ultimo venne poi reintegrato da Gioacchino Murat e, con la seconda restaurazione borbonica, divenne primo ministro del Regno delle Due Sicilie.

Ottocento

Nel 1811, Rionero avevano superato gli 11000 abitanti e fu elevato a Comune autonomo con decreto di Gioacchino Murat il 4 maggio dello stesso anno, grazie all’impegno di Giustino Fortunato senior.

Nell’aprile 1848, in piena rivoluzione agraria sotto il Regno delle Due Sicilie, a Rionero si registrarono forti tumulti contro il latifondismo. I contadini rioneresi, dopo aver costretto con la forza il sindaco ad abolire il dazio sul macinato, invasero il bosco di Lagopesole appartenente alla famiglia Doria, ma fittato a pascolo ai Fortunato reclamando ancora una volta l’annoso problema della quotizzazione delle terre venuto già a galla, a più riprese, nel corso della intera storia del Mezzogiorno d’Italia.

All’alba dell’unità d’Italia, Nicola Mancusi, sacerdote, patriota e responsabile del comitato insurrezionale di Avigliano, vedendo un solido appoggio da parte delle classi medie, scelse Rionero per installare un altro comitato nel giugno 1860, che avrebbe agevolato la cosiddetta insurrezione lucana in favore di Giuseppe Garibaldi.

Il 17 agosto dello stesso anno, l’allora sindaco di Rionero, Giuseppe Michele Giannattasio, con il quadro di Garibaldi in mano, scese in piazza gridando “Viva Garibaldi!” e, assieme ad altri sostenitori come Emanuele Brienza, Canio Musio, Nicola Mennella, Achille D’Andrea, Achille Pierro, Francesco Pennella e Costantino Vitelli, si recò a Potenza, al comando di un gruppo di 54 volontari.

Con la caduta del Regno delle Due Sicilie e la sua annessione al nuovo Regno d’Italia, le speranze però andarono deluse e le promesse di una risoluzione della questione demaniale da parte del nuovo governo non vennero attuate suscitando un forte malcontento del ceto popolare.

Così Rionero divenne uno dei maggiori centri del brigantaggio postunitario e diede i natali al più noto brigante del periodo, Carmine Crocco detto “Donatello”, un bracciante che si arruolò come garibaldino durante la spedizione dei Mille e che, dopo la delusione ricevuta per la mancata clemenza per il suo passato da disertore, passò nelle file borboniche per combattere i borghesi e l’esercito unitario, divenendo comandante di un’armata di 2000 uomini.

In quattro anni, Crocco sconvolse la zona del Vulture, dell’Irpinia, della Capitanata e le sue scorrerie arrivarono fino al Molise e al Salento.

Un altro noto brigante originario di Rionero fu Michele di Gè, che aderì al brigantaggio quando l’armata di Crocco era stata quasi del tutto debellata. Con la fine del brigantaggio, Rionero fu sconvolta ancor di più da povertà e miseria.

Fu l’impegno del meridionalista Giustino Fortunato, originario di Rionero, ad alleviare le gravose condizioni di vita della città: con la diffusione di vaccini antimalarici, con la costruzione di un asilo dedicato alla madre Antonia Rapolla e della stazione ferroviaria di “Rionero-Atella-Ripacandida”, inaugurata il 21 settembre 1897.

Dal novecento ad oggi

Nel 1902, l’allora primo ministro Giuseppe Zanardelli, in viaggio per conoscere di persona le problematiche dell’Italia Meridionale, fece visita a Rionero accompagnato da Fortunato e alloggiò nel suo palazzo tra il 26 e il 29 settembre.

Nel settembre 1943, si registrò a Rionero una delle più tristi tragedie della sua storia, ove diciotto rioneresi furono trucidati da alcune truppe naziste. Già dal 16 di quel mese la popolazione,  temendo la distruzione da parte tedesca dei magazzini dei viveri, assaltò gli stessi magazzini del Rione Sant’Antonio, portando via sacchi di farina, di riso e altri generi alimentari.

I nazisti spararono sulla folla uccidendo un diciassettenne, Antonio Cardillicchio, e diedero fuoco ai magazzini, ove perì una donna, Elisa Giordano Carrieri.

Il 24 settembre, il contadino Pasquale Sibilia, svegliato dalle grida della figlia, uscì di casa armato: gli parve di scorgere un sergente dei paracadutisti intento a rubargli una gallina. Così sparò, decretando il ferimento di sua figlia: l’altro, infatti, rispose al fuoco prendendolo di striscio colpendo Sibilla all’inguine.

Questo gesto del contadino irritò il capitano dei paracadutisti il quale, su ordine di un ufficiale tedesco, portò alla cattura di sedici persone (inclusa Sibilla), tutte barbaramente uccise a colpi di mitragliatrice.

Si salvò solo Stefano Di Mattia, creduto morto perché svenuto, facendosi scudo con i corpi dei compagni. Una stele eretta sul luogo dell’eccidio ne ricorda la tragedia per la quale la città di Rionero ha ottenuto la Medaglia d’Argento al Merito Civile.

Il 3 ottobre 2009, riceve il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, ospitato nel palazzo Fortunato nel convegno “Mezzogiorno e unità nazionale – verso il 150º dell’Unità d’Italia”, affrontando la tematica del Risorgimento, del Mezzogiorno e rendendo omaggio alla memoria di Fortunato.

Torna in alto
× Hai bisogno di aiuto?